“Canta che ti passa…” di p. Ennio Staid O.P.

In questi tempi di grande malinconia il mio superiore mi dice: “Canta che ti passa”. A me non passa la voglia di sottolineare che le cose di questo mondo non vanno bene. Provo a cantare, ma le note mi sembrano tristi. È finito il tempo, quando da ragazzo, mi riempivo orecchie e testa delle canzoni che tutti i festival sfornavano di continuo. Sfido oggi chiunque a cantarmi o zufolarmi il motivo che ha vinto il festival dall’anno passato. Tutto rotola via velocemente e la “patria del bel canto” si è volatizzata. Io sono nato da gente povera, in un quartiere povero, ma era raro trovare persone che non conoscessero almeno una romanza di Verdi o di Puccini e “Grazie dei fiori” o “Vola colomba” le cantavamo davvero tutti. Non canto io, ma neppure il nostro popolo non canta più. Mi dico: non si canta perché siamo diventati più pessimisti oppure perché non siamo più abituati a cantare? Certo dal punto divista morale o politico ho poco da sperare che le cose cambino, anzi, da come mi appaiono, le vicende di questo mondo non lasciano vedere nessun barlume di una prossima luce.

Poi mi domando ancora: ma quando Gesù ha ordinato ai suoi discepoli di andare in tutto il mondo ad annunciare la Buona Novella, non sapeva di tutti i guai che gli uomini avrebbero combinato lungo il corso dei secoli? Forse sono io che ho compreso male, Lui voleva dire: “Guardate che il Vangelo diventa “Lieta Novella” soltanto quando gli uomini si decidono a dire, come mia Madre: “Si faccia di me secondo la Tua parola”; guardate che non è sufficiente portare questa notizia di gioia, ma è necessario accoglierla, farla vostra, trafficarla ed impegnarvi con questa Parola. Solo in quel momento scaturisce, come da una sorgente misteriosa ma reale, il canto di lode, di ringraziamento. Ora capisco perché S. Teresa diceva saggiamente che: “Un cristiano triste è un tristo cristiano” e, non so più chi, aggiungeva acutamente: “Un cristiano anche se ha mille motivi per essere triste ne ha almeno uno per essere lieto: la certezza che il Signore è con lui”. Ora, se il Signore cammina con noi, tutto diventa più semplice. Questo Signore si fa uomo perché l’uomo possa scoprire la stupefacente realtà di essere deificato con Lui, identificato con Gesù Cristo e, come san Paolo, possa ripetere nella fede: “Sono inondato di gioia in tutte le mie tribolazioni”. Solo così si riesce a cantare anche quando sembra che tutto crolli. Il cristiano è un innamorato, e un innamorato non dubita del suo amore. Riesce a vedere chiaro anche nell’oscurità. Sa che dove lui non può arrivare arriva l’amore di Gesù. Non si scoraggia e continua sereno a lavorare affinché il Regno, iniziato da Gesù Cristo, si realizzi. Crede che l’amore è l’ultima dimensione di tutto. Mi sembra fosse Sant’Agostino a sostenere che “Chi canta prega due volte”.

Baden Powell, fondatore degli scout, riteneva che “Un reparto che canta è un reparto che cammina”. Ricordo, con nostalgia, il canto di mia madre e delle altre donne impegnate a lavare i panni nel lavatoio pubblico su cui si affacciava-no le finestre della mia casa. Canto che faceva scorrere il tempo più veloce e alleviava la fatica di donne che passavano buona parte della giornata con le mani dentro l’acqua. Spesso erano nenie tristi che raccontavano di giovinetti costretti ad emigrare, oppure canti di rabbia o di amore, a volte stonati, sempre però vigorosi, squillanti. Purtroppo non si canta più neanche in chiesa! Il ricordo vivissimo diventa nostalgia ripensando ai quei canti, spesso stonati, fuori tempo, eppure magnifici perché, a me bambino, davano il senso di una fede genuina fatta di tanti miracolosi “sì” al piano di Dio. Mi pareva che tutta la corte celeste si riversasse nella nostra chiesa al canto di tutto il popolo. Ora sono aumentate il numero delle Messe, ma è diminuito, quasi abolito, il canto del popolo. Qua e là sono nati piccoli o grandi cori, spesso con una buona preparazione musicale, ma la maggioranza del nostro popolo non sa più cantare. I più se ne stanno silenziosi, a volte annoiati, sembra con grande disagio in una chiesa che non sen-tono propria, forse ripetendo quelle due o tre preghiere imparate da bambini.

Il canto, quello che faceva vibrare i vetri delle grandi finestre, non si sente più. La dolcezza di quei canti superava il disagio di non capire ciò che si cantava. La liturgia allora era legata alla lingua latina, e la maggioranza del popolo non comprendeva il latino. Certo, tutti sapevano che si cantavano le lodi di Dio, e ciò era sufficiente perché anche i più dotti sorridevano e pazientavano nell’ascoltare gli strafalcioni che il popolo cantava. Durante la novena del Natale, per esempio, si cantava la maternità verginale di Maria con un inno che iniziava con le parole: “Castae parentis viscera” e il popolo cantava: “Ha dei parenti in Svizzera”. Per me, a quel tempo, era più importante sentire la mia mamma e le altre lavandaie cantare le lodi di Dio che preoccuparmi se Maria avesse i parenti in Svizzera. Neppure mi stupivo, sempre nella novena di Natale, che si cantasse: “O Bambino pieno di vino”. Infatti, nessun dono poteva portare il piccolo Gesù al mio papà più gradito del vino. Né mi preoccupa-vo quando sentivo cantare nelle litanie lauretane che la Regina di tutti i santi (Regina sanctorum omnium) diventava: “Regina sant’armonium”. L’armonium, lo sapevo bene, era uno strumento musicale, e chi poteva essere maestra e regina della musica se non la Madre di Gesù? Forse in questi tempi, in cui non si ha più voglia di cantare, è avvenuto un miracolo a rovescio: La “Regina sant’armonium” ha cessato di suonare ed aspetta che gli alunni cessino di far rumore con le bombe, con gli spintoni ei pugni e ritornino in pace intorno a Lei per riprendere il canto.

P. Ennio Staid o.p.

Articolo e foto tratte da “Lettera agli amici della Fraternità Agognate” – Anno 22° n. 110 giugno 2021

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