Quando riuscirò a dire a me stesso taci? di p. Ennio Staid O.P.

Anche questa volta desidero condividere con voi qualche pagina dei miei diari. Rivedo la mia vita passata, le riflessioni e le domande di allora, che ancora accompagnano il mio oggi: Come farò a guarirmi di questa terribile malattia dello scrivere? E quando riuscirò a dire a me stesso taci? Forse se qualcuno, con occhio osservatore sarà presente quando morirò, potrà notare che impercettibilmente le mie mani si sforzeranno ancora a muoversi nel tentativo estremo di scrivere. Credo che non mi rassegnerò mai a questa mia disfatta. Non imparerò mai la saggezza del tacere, non mi farò mai furbo abbastanza da comprendere che sarebbe proprio il caso di piantare tutto e di sapermi accettare così come sono con tutta la mia quotidiana disfatta e nutrirmi di quel sano cinismo che viene dopo ogni delusione. Mentre sto scrivendo vi è il mio registratore che cammina nel tempo e trasmette tante musiche che mi ricordano tutto un periodo: 1959 – 1962.Facevo l’Ispettore nel Centro Sud dell’Italia. Con la mia bella vettura ho girato di paese in paese, cercando qualcosa a cui mai sono riuscito a dare un vero nome. Qualcosa che forse esisteva soltanto dentro di me e che io, disperatamente e freneticamente, cercavo fuori.

Quanta gente è entrata ed uscita dalla mia vita! Mi sembra di rivederli tutti come se fossero piantati sui margini di una lunghissima strada simili a tanti alberi e veder me sfrecciare con la vettura che riesce appena a notare quel susseguirsi di visi. Ogni tanto una breve pausa che non dura più di qualche mese. Poi si risale in macchina e si riparte. La fame della vita ogni volta dava nuovo coraggio e nuova forza, ed il piede obbediva mentre premeva l’acceleratore. Tra una persona e l’altra, squarci di mare azzurrissimo ed infinito, come la mia ricerca, e colline ora riarse e povere come la gente che mi affascinava, o lussureggianti di verde e ricche di frutti e di messi come coloro che mi permettevano di girare e di desiderare i miei poveri. Non ho mai amato la povertà, ma ho sempre desiderato i poveri. Mi è sempre piaciuto stare con loro, sentirli parlare, rimanere estasiato davanti alla loro incrollabile fiducia, in questo loro attaccamento alla vita. Nella casa di un povero si sente la vita che circola tra gli stracci, ha il sapore del sudore e sprizza da ogni suppellettile come una marcia che erompa da una ignota fanfara e guida verso il sacrario della casa, di ogni povero. Il letto. Il letto per i poveri è la giusta sacra ricompensa a questo estremo desiderio di vita. Ogni desiderio di benessere, di grandezza, di lusso, viene qui appagato. Su questo trono di paglia, di assi e di rete metallica nasce, si sviluppa e muore la vita di ogni povero.

Anche le sue elevazioni spirituali crescono in questo sacra-rio della vita e nelle notti insonni dopo troppa fatica, ricompensata male, nasce l’idea di Dio rimuneratore. Tra il sonno innocente dei piccoli si alza al Dio dell’Amore un inno di ringraziamento tutto particolare, un ringraziamento che ha il sapore della spontaneità e della semplicità. Quante volte in questo mio vagabondare nel dolce Sud ho sosta-to per ore a contemplare un paesino o un borgo avvolto dal silenzio della notte! Sentivo la forza inesauribile che emanava da ogni piccola casa dove uomini abbrutiti dal lavoro rendevano il loro umile grazie a Dio per avere loro concesso ancora una notte di riposo e di piacere. Il fermarmi era come scaricare le energie che accumulavo in ogni incontro e che mi rendevano sensibile e vivo. Il sonno dei poveri mi rendeva la coscienza di essere uno di loro, e quasi gioivo di sentirmi indifeso e povero come tutti quegli uomini che immaginavo rilasciati nell’amplesso misterioso che si ha con il sonno. Sopra di me era il cielo trapuntato di stelle ed io rimanevo immobile e compreso da un senso di pochezza che riusciva a dare la giusta misura della mia effettiva povertà. La grande immensa città del Nord, dove abitualmente vivevo era allora lontanissima non solo per chilometri di strada ma, e soprattutto, per affetti. Gli incubi che ho sempre provato nel vivere in quel caotico alveare che è la città scomparivano di colpo ad un gracchiare di rane. Lo stridere delle ruote dei tram, il lampeggiare dei semafori e la corsa pazza degli uomini sparivano per lasciare posto alla mia fantasia che penetrava curiosa tra le mura di quelle case e ne coglieva la meravigliosa poesia della vita semplice e pulita.

Per me lasciare la città e correre per la campagna era sempre un’esperienza nuova; era sentirmi finalmente libero e significava sempre sfuggire ai miasmi del peccato che troppo spesso infestano la città. Nel Sud ho trovato la purezza ed ho scoperto la ricchezza che viene dalla vera povertà. Ho sentito che la semplicità poteva mondarmi di ogni macchia contratta cercando di districarmi tra un mare di cemento di mattoni e di catrame di cui è composta ogni città. La libidine, il sudiciume, la crudeltà di sempre, nelle dolci e silenziose strade del Sud sembravano sparire e la meraviglia della metamorfosi del mio spirito riusciva sempre a trasportarmi oltre ogni mio modesto desiderio di evasione.

P.  Ennio Staid O.P.

Articolo da “Lettera agli amici della Fraternità Agognate” – Anno 22° n. 112 Dicembre 2021

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